“Pane, prosciutto, donne e lambrusco” come si dice in Emilia

Le mie origini emiliane, anche se talvolta ben mescolate con un cucchiaio di curiosità culinaria, cinque dosi d’amore per la cucina di pesce e un pizzico di desiderio di diventare vegetariana, non tradiscono in realtà le caratteristiche della pianura padana, la quale – nonostante l’inquinamento, l’umidità e qualche zanzara di troppo – può senza dubbio essere considerata una delle zone d’Italia col maggior numero di eccellenze gastronomiche. Senza dilungarsi troppo sulla tradizione della pasta fresca, perché ormai da decenni rinomata in tutto il mondo, ed estendendo il discorso all’intera regione, la ricchezza gastronomica dell’Emilia Romagna è indiscutibile, grazie anche alla sua configurazione geografica.

…ma parliamo di Emilia…

Famosi sono i salumi e la norcineria delle province emiliane, da Piacenza a Bologna.

A Langhirano, sulle colline parmensi, ad un’altitudine non superiore ai 900 metri, i prosciuttifici sono orientati in modo che la brezza marina, proveniente dalla Liguria, contribuisca alla buona stagionatura del famoso crudo di Parma.

A Felino, sempre sulle prime colline fuori Parma, nella Valle Baganza, il salame è da almeno due secoli un’eccellenza, a cui è stata riconosciuta negli ultimi anni la denominazione IGP.

Nella bassa provincia parmense, in prossimità del Po, Zibello e i comuni limitrofi possono essere considerati la patria di quello che è probabilmente il “re dei salumi” italiani: il culatello, ottenuto dalla parte più pregiata del suino, la noce della coscia. Anche se di origini molto antiche, il suo nome poco elegante lo escluse dalle rassegne e dai trattati gastronomici fino alla fine dell’Ottocento. Oggi è ancora più tutelato grazie al Presidio Slow Food, che prevede una stagionatura di oltre 18 mesi, un peso intorno ai quattro chilogrammi e l’utilizzo di maiale di razza autoctona (mora romagnola ad esempio), o comunque animali alimentati secondo stardards che tengano conto del loro benessere.

Di Bologna è, invece, la mortadella, nonostante le sue origini sembrino rimandare ad un piccolo comune della provincia di Reggio Emilia, Salvaterra. Anche se la produzione di questo salume è ormai estesa a varie regioni del nord e centro Italia, la versione “classica”, prodotta nel bolognese, è anche tutelata oggi dal Presidio Slow Food, con una produzione esclusivamente artigianale: l’utilizzo di suini italiani alimentati senza ogm, conservanti ridotti al minimo e cottura in stufe di pietra.

E poi la pancetta e la coppa piacentina, la coppa di Parma, il prosciutto di Modena, la mariola, la spalla cotta di San Secondo (che pare prodotta fin dal 1184), o la spalla cruda, ma anche lo strolghino, il salame gentile o il piacentino…

Per quanto riguarda i prodotti caseari, il parmigiano-reggiano ha la sua “culla” nel piccolo comune di Bibbiano, conteso per secoli tra il Ducato di Parma e Piacenza e il più recente capoluogo della provincia reggiana. Oggi è una produzione tipica delle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, parte della provincia bolognese e parte di quella mantovana. Le lunghe stagionature, da 24 fino a oltre 100 mesi, e il disciplinare rigoroso (che vieta l’utilizzo di insilati nell’alimentazione delle vacche) lo rendono unico. Dopo il primo anno di stagionatura, in base ad un accurato esame della forma, si decide se prolungare la stagionatura o mettere in commercio il prodotto. Il parmigiano-reggiano è anche il più importante prodotto Dop realizzato in montagna, con oltre 110 caseifici e 1200 allevamenti distribuiti sul versante appenninico delle province reggiana, parmense, modenese e bolognese. Per garantire l’origine e la qualità di questa ristretta produzione, il Consorzio Parmigiano-Reggiano ha creato la certificazione “Prodotto di Montagna-Progetto Qualità Consorzio”, la quale prevede, in primo luogo, che il 100% del latte utilizzato provenga da stalle di montagna e che oltre il 60% dell’alimentazione delle vacche sia costituita da foraggio coltivato in montagna.

La tavola emiliana, proprio in abbinamento a salumi e formaggi, si arricchisce poi di erbazzone, tipica torta salata di Reggio Emilia, tigelle e crescentine, diffuse soprattutto tra Reggio e Bologna, e gnocco fritto/torta fritta a seconda che ci si trovi nelle province di Reggio o Parma.

L’antenato dell’aceto balsamico tradizionale è documentato già all’epoca di Matilde di Canossa, ma è solo nel 1747 che compare l’aggettivo “balsamico” in documenti del Ducato estense. Nell’infinita varietà – soprattutto nei supermercati – di prodotti in commercio, alcuni dei quali così di pessima qualità da non meritare nemmeno di essere presi in considerazione, solo due tipologie in realtà sono tutelate con indicazione di origine: due sono delle DOP, l’aceto balsamico tradizionale di Modena e l’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia, e prevedono un invecchiamento in batterie di differenti botti di legno dai 12 ai 25 anni; uno invece è una IGP, l’aceto balsamico di Modena, con un disciplinare che prevede solo un invecchiamento da 2 a 36 mesi e l’eventuale di aggiunta di caramello come stabilizzante del colore.

Della provincia di Reggio sono poi la torta di riso o la torta di tagliatelle (tipica soprattutto della fascia appenninica, ma ormai diffusa in tanti forni anche del capoluogo). Di una pasticceria del comune di Vignola, in provincia di Modena, è invece la torta Barozzi, creata ad inizi del ‘900 dal pasticciere Eugenio Gollini in occasione delle celebrazioni per i 400 anni dalla nascita dell’architetto Jacopo Barozzi, detto il Vignola (1507-1573). E’ una ricetta artigianale e tutt’ora segretissima, prodotta solo dalla famiglia Gollini, con ingredienti selezionati, tra cui cioccolato fondente, caffè, rum e mandorle e arachidi tostate.

In attesa di andare alla ricerca di alcune di queste aziende con cui fare una piacevole chiacchierata (per questo si rimanda ad articoli futuri), il mio suggerimento è quello di farvi una passeggiata per le vie dei capoluoghi emiliani, alla scoperta di piccoli negozi alimentari, custodi di queste e tante altre eccellenze italiane.