IL MONDO DEL VINO – EPISODIO 1

Dal punto di vista botanico, un’unica specie di vite euroasiatica (Vitis vinifera L. subsp. sylvestris), tra le 100 specie circa che crescono selvatiche nelle zone temperate dell’Europa, Asia e America del Nord, è all’origine del 99% del vino mondiale.
Questa specie oggi cresce in tutto il bacino del Mediterraneo, dalla Spagna al Libano, nell’Europa interna (lungo i fiumi Danubio e Reno), attorno alle sponde del Mar Nero, a sud del Mar Caspio, in prossimità delle sorgenti dei fiumi Tigri ed Eufrate e, più a est, nelle oasi dell’Asia centrale. La distribuzione moderna corrisponde solo ad una piccola parte di quella che doveva essere nel periodo che va da da circa 50 milioni di anni fa fino alla più recente era glaciale del Quaternario, a partire da 2,5 milioni di anni fa. E’ anche probabile, addirittura, che l’origine di questa pianta risalga a molto prima, a 500 milioni di anni fa, quando la rottura dell’unica massa terrestre (Pangea) e il progressivo allontanamento dei continenti portò alla differenziazione di singoli gruppi di vite partendo da un antenato comune, l’Ampelopsis, un tipo di vite rampicante. La progressiva desertificazione dell’Asia centrale, dell’Africa del nord e dell’America settentrionale, così come altre barriere naturali, portarono all’isolamento di alcune varietà e alla selezione delle 100 specie moderne attualmente conosciute.
Le forme primitive di Vitis erano piante ermafrodite (come la moderna Vitis vinifera L. subsp. vinifera). Per motivi ancora sconosciuti, la vite selvatica (Vitis vinifera sylvestris) divenne dioica, cioè i sessi vennero separati su piante separate. In queste condizioni, l’impollinazione deve essere aiutata da insetti o altri animali, o dall’uomo stesso.
…ma andiamo con ordine e vediamo quando, dove e come fiorì la vinificazione.
Il primo incontro, casuale, tra l’uomo (Homo sapiens) e la vite selvatica potrebbe aver avuto luogo circa 2 milioni di anni fa nella Turchia orientale, nella Siria del nord o nell’Iran nord-occidentale.
Paleolitico
Successivamente in età paleolitica, è possibile che gli uomini primitivi, in cerca di cibo nelle foreste montane o nelle valli fluviali, abbiano assaggiato l’uva, attirati dal colore brillante. Una volta scoperto il sapore dolce del frutto, ne potrebbero aver raccolto in grandi quantità, ammassandone i chicchi in una pelle di animale o in un contenitore di legno rozzamente scavato o anche in una cavità naturale della roccia. E’ possibile che, a seconda del grado di maturazione del frutto, le bucce si siano spaccate per il peso dei grappoli soprastanti, lasciando colare il succo. Esso, nei giorni successivi, sarebbe fermentato grazie alla naturale “fioritura” della fermentazione sulle bucce, trasformandosi in un vino dal basso contenuto alcolico, sorprendente e piacevole. A questo processo, che lascia molto spazio alla casualità, è probabile che presto si siano affiancati spremiture e assaggi sempre più intenzionali.
In Siria, i vinaccioli selvatici sono un ritrovamento assai frequente nei siti lungo il corso del medio Eufrate, come Mureybit, Abu Hureyra e Dja’da, databili dal periodo epipaleolitico o natufiano (11000-10000 circa a.C.) fino alla prima Età del Bronzo.
In Turchia, Çayönü ha restituito semi di vite selvatica del 9000 a.C.
Al di là di semplici ipotesi, dal punto di vista archeologico non ci sono ancora testimonianze di un vero e proprio “vino paleolitico”: mancano scavi in cui i livelli paleolitici siano così ben conservati e mancano analisi di archeologia molecolare nei recipienti in pietra per verificare la presenza di tracce di una bevanda a base di uva. L’assenza di contenitori con forme chiuse, adatti alla conservazione di liquidi, o chiudibili con un coperchio, sembra confermare questa situazione. La produzione di tale bevanda doveva essere limitata al solo periodo autunnale e soprattutto bevuto velocemente, prima che si trasformasse in aceto. Gli uomini del Paleolitico non erano ancora in grado di controllare il processo di fermentazione e la macerazione carbonica avveniva solo sul fondo del contenitore, dove si accumulava il succo spremuto dal peso dei grappoli superiori. Il prodotto finale, nonostante possibili odori e sapori sgradevoli che si potevano formare per la presenza di vari microrganismi, doveva risultare, comunque, sufficientemente aromatico e piacevole.
Neolitico
L’età neolitica (8500-4000 a.C.) è considerata il primo periodo in cui si verificarono tutte insieme le condizioni necessarie per l’innovazione della viticultura e la diffusione della vinificazione su larga scala. Nel Vicino Oriente l’uomo imparò a sfruttare meglio le risorse naturali, vennero addomesticati gli animali (ruminanti), nacque l’agricoltura e la possibilità di immagazzinare derrate alimentari che consentissero la diversificazione del lavoro e la nascita di una società gerarchizzata e strutturata su base piramidale. Nacquero i primi villaggi stabili e le città, la scrittura e una cerchia ristretta di contabili in grado di amministrare e ridistribuire il surplus. L’agricoltura pare essere nata nell’area dei Monti del Tauro, nella Turchia orientale. Qui la coltivazione di varie specie di cereali e altre piante (farro piccolo, farro, orzo, cece, veccia amara, pisello, lenticchia e lino) divennero la base grazie a cui impostare la nuova economia. E’ quindi molto probabile che anche l’orticultura abbia avuto in queste terre le sue origini.
La vinificazione implicava la padronanza di una lunga serie di tecniche, oltre alla semplice coltivazione della pianta. In primo luogo, la vite andava curata tutto l’anno e difesa dalle malattie. Dovevano poi venir costruiti e perfezionati utensili per la pigiatura e per poter separare i residui del mosto. La stessa industria ceramica, che fa la sua comparsa intorno al 6000 a.C., sfruttando la plasticità dell’argilla, consentiva la realizzazione di varie forme, distinte a seconda della destinazione d’uso.
L’ipotesi Noè e il diluvio
E’ da alcuni studiosi definita “ipotesi Noè” la ricerca del DNA per scoprire quando e dove venne domesticata per la prima volta la vite selvatica euroasiatica. Tale espressione deriva dal fatto che il primo gesto del patriarca biblico, dopo che l’arca si posò sul Monte Ararat, fu quello di piantare una vigna (Genesi 8,4 e 9,20). In realtà, il racconto biblico delle origini (Genesi 1-11) è una versione tarda di un poema epico mesopotamico della creazione, in cui un eroe di nome Utnapishtim sopravvive ad un diluvio.
Secondo gli studiosi, la storia risalirebbe al III millennio a.C. e troverebbe la sua versione finale nel poema epico di Gilgamesh risalente al I millennio a.C. Gilgamesh compì le sue audaci imprese per scoprire il segreto della vita eterna dell’eroe Utnapishtim. Quest’ultimo, infatti, era favorito dagli dei, che gli suggerirono di costruire un’enorme nave con cui portò in salvo sé e la propria famiglia dal diluvio di pioggia che durò sette giorni e sette notti. Utnapishtim atterrò sul Monte Nisir. Come premio per la loro devozione, l’eroe e la moglie vennero resi “pari agli dei”. Le allusioni al vino e all’uva nella versione biblica e mesopotamica del Grande Diluvio sono suggestive, ma sono anche mescolate a motivi fantastici e leggendari che rendono difficoltosa l’indagine storica. Nonostante leggere differenze tra le due versioni l’episodio si colloca ai margini delle pianure basso-mesopotamiche: Noè piantò la vigna dopo che l’arca si fermò sul Monte Ararat, localizzato nei Monti del Tauro nella Turchia orientale, mentre il Monte Nisir, di più difficile identificazione, va collocato o nella parte inferiore dei Monti Zagros in Iran oppure sempre nella Turchia orientale. Inoltre, come Gilgamesh fu il quinto re della prima dinastia di Uruk, una città-stato della Bassa Mesopotamia risalente al 2700 a.C., anche Noè pare essere originario della stessa regione.
E’ sorprendente scoprire che, dal punto di vista geologico, una effettiva catastrofica inondazione di acqua salata proveniente dal Mediterraneo sia effettivamente documentata nel bacino del Mar Nero intorno al 5600 a.C., e potrebbe essere proprio questo evento naturale l’origine dei successivi poemi mesopotamici e biblico. Secondo gli studiosi Ryan e Pitman, prima della metà del VI millennio a.C., il Mar Nero era tagliato fuori dal Mediterraneo grazie alla presenza di una barriera naturale sullo stretto del Bosforo. Dopo l’ultima era glaciale, il livello del mare si alzò gradualmente, ma fu solo con l’aumentare delle temperature dopo il 5800 a.C. che le acque del Mediterraneo superarono la “diga” naturale entrando nel Mar Nero e inondando le terre circostanti. Le acque pare crescessero di circa 15 cm al giorno e le popolazioni ebbero il tempo sufficiente per mettersi in salvo e abbandonare i propri villaggi. Grazie a trivellazioni di profondità nel Mar Nero e nel Bosforo e attraverso tracciati radar, Ryan e Pitman hanno potuto recuperare una serie di dati relativi alla presenza di determinate specie di molluschi in cui è chiaramente osservabile il rapido passaggio dall’acqua dolce a salata verso il 5600 a.C. I popoli proto-indoeuropei sarebbero stati spinti via dalle loro terre da questa inondazione e avrebbero trasmesso il loro sapere e stile di vita alle altre popolazioni europee, vicino e medio-orientali.
La culla del vino
Un botanico russo, Vavilov, fu il primo ad affermare che la più antica “cultura del vino” del mondo si sviluppò nella Transcaucasica, comprendente l’odierna Georgia, l’Armenia e l’Azerbaigian.
L’ampio scenario archeologico della viticoltura fa pensare ad una attività gradualmente diffusasi nel tempo e nello spazio, a partire dalle montagne settentrionali del Vicino Oriente, fino a diventare una forza economica e sociale in tutta la regione e in Europa. Le probabilità di trovare vino neolitico sono sembrate fin da subito agli studiosi abbastanza buone, dal momento che molti di questi siti si trovavano su altipiani o montagne del Vicino Oriente, proprio dove cresceva spontanea la vite selvatica euroasiatica. Fortunatamente l’archeologia, si sa, è in continuo divenire: nuove scoperte sono all’ordine del giorno, nuove tecnologie, nuovi manufatti e resti di vite attendono di essere scoperti.
Al giorno d’oggi, infatti, la ricerca archeologica può usufruire di una serie di strumentazioni in grado di misurare e analizzare la materia organica antica, anche nell’ordine dei microgrammi. Lipidi, resine, tinture, ingredienti di profumi e spezie sono solo alcuni dei composti organici rinvenuti nei contesti archeologici.
Il vino, da parte sua, è una miscela molto complessa di composti organici, tra cui vari alcoli, acidi esteri, carboidrati, proteine e varie molecole (tannini, antocianine, ecc.). Questa ampia gamma di componenti aumenta la possibilità che parte del materiale organico, o della sua degradazione, si sia conservato in contesti antichi. Analizzando alcuni dei residui di questo materiale, conservato sul fondo o all’interno di alcuni grandi contenitori per liquidi, si è potuta riscontrare la presenza di acido tartarico, il quale in Medio Oriente è presente allo stato naturale soltanto nell’uva. La presenza di questa sostanza (come prodotto durante la maturazione del frutto) o dei suoi componenti correlati (prodotti durante il processo di vinificazione) non consente però di definire quale tipo di prodotto fosse contenuto negli orci: succo d’uva, vino o aceto? Il clima caldo e i lenti metodi di spremitura rendevano la fermentazione dell’uva piuttosto veloce, trasformando in vino il succo estratto già nei primissimi giorni dopo la pigiatura. Per evitare che il vino diventasse rapidamente aceto bisognava sigillare il contenitore, impedendo così all’ossigeno di portare alla moltiplicazione dei batteri dell’acido acetico. Fino all’età romana, i vinificatori antichi non ebbero a disposizione lo zolfo come inibitore del processo di fermentazione. Essa procedeva, dunque, fino al punto in cui il lievito non poteva più sopravvivere a causa dell’alto tasso alcolico. La prova del fatto che un campione antico di materiale organico, risultato positivo all’acido tartarico, sia interpretabile come vino pare potersi collegare alla presenza nelle vicinanze di tappi per orci, realizzati in ceramica e resi il più possibile ermetici e impermeabili. Questi tappi dimostrerebbero la volontà di eliminare le infiltrazioni di ossigeno, evitando di conseguenza la trasformazione del liquido in aceto.

Transcaucasica e Turchia
I più antichi resti di vite domestica provengono dai siti neolitici della Transcaucasica. Gli scavi archeologici all’interno e nei dintorni delle moderne capitali di Tbilisi (Georgia) e Erevan (Armenia) hanno rivelato una sequenza ininterrotta di insediamenti che giungono fino all’età neolitica. Sei vinaccioli di viti domestiche – caratterizzati dalla tipica forma lunga e stretta – provengono dal sito neolitico di Shulaveris Gora, in Georgia, considerato uno dei più antichi insediamenti conosciuti nella Transcaucasica. Questi semi, datati con il radiocarbonio al 6000 a.C., rappresentano i più antichi semi della Vitis vinifera vinifera finora trovati. Da questi stessi strati provenivano i frammenti di alcuni orci con frequenti tracce di un residuo rossastro sulla metà inferiore e sul fondo interno.
Anche in Armenia la fiorente attività vinicola affonda le sue radici nel Neolitico. Gli insediamenti esplorati risalgono, per ora, al V millennio a.C. e sono concentrati soprattutto nella valle dell’Ararat.
Testimonianze simili giungono anche da Chokh, un insediamento con poderosi edifici in pietra situato in una valle montana a 1700-1800 m s.l.m. nel versante nord del Caucaso maggiore.
La Transcaucasica può essere considerata un esempio di come una cultura del vino possa emergere e restare viva anche per millenni. Più complicato rimane, allo stato attuale delle ricerche, stabilire se questa ristretta regione sia stata anche la “culla della viticoltura”.
In Turchia, con l’aumento degli scavi archeologici sui Monti Tauro, questi piccoli resti botanici hanno iniziato a rivestire un’importanza enorme nella preistoria della viticoltura. Dai siti della regione di Urfa e lungo le aree superiori del Tigri e dell’Eufrate (tra cui Korucutepe, Tepecik, Kurban Höyük, Hassek Höyük, Hacinebi, Çayönü e molti altri siti) proviene abbondante materiale archeobotanico relativo alla Vitis vinifera sia selvatica sia domestica. Tutti questi siti risalgono ad una data compresa tra il Neolitico aceramico (8000 a.C. circa) e il tardo Calcolitico (3500 a.C.). Sempre in Turchia, intensi scavi come Çatal Höyük, Çan Hassan e Hacilar hanno evidenziato una serie di materiali di grande importanza per i primi stadi della viticoltura e in generale per la produzione di bevande.
L’insediamento di Çan Hassan vanta tra tutti i siti turchi alcuni dei semi più antichi di vite selvatica, risalenti ad una fase preceramica del Neolitico (7200-6500 a.C.)
Çatal Höyük può essere considerato il più grande villaggio neolitico del Vicino Oriente, con una sequenza stratigrafica che va dal 6500 al 5500 a.C. Nel sito sono stati recuperati enormi quantità di semi di celtide (Celtis sp.), i quali hanno portato all’ipotesi che da questo frutto si producesse una bevanda, una sorta di birra. Considerata poi la diffusione in tutta l’Anatolia, ancora oggi, del miele, è possibile che i primi produttori di bevande a Çatal Höyük si affidassero ai fermenti osmotici contenuti nel miele per portare avanti e a termine la fermentazione.
Poiché questi siti rientrano nell’area naturale della vite selvatica, la presenza di semi potrebbe essere dovuta alla raccolta dell’uva circostante, ma è anche possibile che in tutta la regione si sperimentasse una serie di frutti a scopo alimentare e che, durante questa sperimentazione, si fosse scoperto che alcuni di questi frutti – come l’uva – avevano la capacità di farne fermentare altri – come la celtide o il farro piccolo, oppure lamponi, more, bacche di sambuco ecc. – . L’antico produttore di bevande dovette arrivare a capire che aggiungere uva a qualsiasi altra mistura di ingredienti meno dolci migliorava il risultato. E’ possibile che i lieviti che ribollivano sulla superficie delle bevande miste venissero schiumati e venissero utilizzati per altre produzioni. In questo processo così sperimentale, un particolare tipo di lievito, il Saccharomyces cerevisiae, potrebbe aver predominato sugli altri e potrebbe essere stato scelto per tutta la gamma delle bevande fermentate. Poiché questo lievito non è portato dall’aria, è possibile concludere che la conoscenza della sua azione nell’uva, nei fichi, nei datteri e nel miele venne prima del suo uso per i cibi (pane) e per le bevande basate sul grano (birra).
Hajji Faruz Tepe
L’insediamento neolitico di Hajji Faruz Tepe si trova sui Monti Zagros settentrionali, in Iran, ad un’altitudine di 1200 m s.l.m., in una regione periferica all’odierna distribuzione della vite selvatica. Da questo sito proviene un frammento ceramico, rinvenuto all’interno di un edificio, con un residuo organico giallastro che il radiocarbonio ha datato al 5400-5000 a.C. circa. L’edificio, realizzato in argilla essiccata, era costituito da una stanza principale con funzione anche di camera da letto, una cucina e due magazzini. Nella cucina furono rinvenuti vari orci e altro vasellame in ceramica. Analizzando il residuo giallastro, conservatosi in alcuni frammenti di questi orci, si scoprì la presenza di acido tartarico, riferibile – come abbiamo già detto – ad una bevanda o un liquido a base di uva. Inoltre, sempre nella cucina vennero trovati tappi di argilla dello stesso diametro degli orci, a prova della volontà e necessità di sigillare il contenuto degli orci affinché il liquido, in questo caso, dunque, vino, non si trasformasse in aceto. Delle approfondite analisi con la cromatografia liquida consentirono di osservare che il composto giallastro conteneva tracce di resina dell’albero del terebinto (Pistacia atlantica Desf.), la stessa resina nota ai Romani come “regina delle resine”. L’albero di terebinto, appartenente alla famiglia del pistacchio, è diffuso e abbondante in tutto il Medio Oriente, tanto da essere presente anche in alcune aree desertiche. Plinio il Vecchio (famoso enciclopedista romano del I secolo d.C.) scriveva che il modo migliore per evitare la “malattia del vino” era aggiungere alla bevanda una resina d’albero, sia essa pino, cedro, incenso o mirra, ma più spesso terebinto. Lo spirito di osservazione e il senso pratico degli antichi sono stati confermati dall’indagine chimica moderna: queste resine arboree contengono sostanze (triterpenoidi e diterpenoidi) con proprietà battericide che impediscono la proliferazione dei batteri dell’acido acetico e di altri microrganismi. Gli uomini neolitici, dunque, apprezzavano già le proprietà conservative e medicinali delle resine arboree. Il loro uso, soprattutto in combinazione con il vino, continuò ad espandersi nei periodi successivi in tutto il Vicino Oriente e in Egitto. In una regione montana, come quella di Hajji Faruz, l’uva e la resina venivano raccolte quasi nello stesso periodo dell’anno, tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno. La mescolanza di questi due prodotti può aver avuto luogo casualmente o come primo tentativo di preservare la bevanda all’interno del proprio contenitore. Ancora incerto è se il vino di Hajji Faruz sia stato prodotto con vite selvatica o domestica. La quantità di vino presente in una cucina di una casa del sito (circa 50 litri se tutti gli orci contenevano vino ed erano pieni) lascia pensare ad una produzione ed un consumo di vino su scala abbastanza ampia. Se il proseguimento delle indagini confermerà che tutti gli orci dello strato neolitico contenevano vino, si potrebbe concludere che la vite era già stata portata a coltivazione.
Abbiamo, dunque, visto dove presero forma le prime forme di viticoltura e vinificazione. Abbiamo constatato quanto siano stati casuali i processi più antichi e quanto lente le trasformazioni che portarono alla diffusione di un prodotto, il vino appunto, che divenne ben presto parte fondamentale della vita sociale e religiosa di tutte le antiche civiltà.
Da queste regioni, composte da catene montuose e strette valli fluviali, il vino si diffuse a poco a poco nelle regioni adiacenti, come l’Egitto e la Bassa Mesopotamia (3500-3000 a.C.) e più tardi (prima del 2200 a.C.) a Creta e nel Mediterraneo orientale…ma di questo parleremo meglio nei prossimi episodi.